“Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni.”
Questa la motivazione per cui Eugenio Montale è stato insignito del Premio Nobel nel 1975.
E quello che amo di questo poeta è certamente il senso di realismo e la durezza del suo modo di fare poesia, inteso come semplicità ed essenzialità di stile abbinato ad una straordinaria espressività delle immagini poetiche.
Non è facile parlare di autori insigniti di questo premio importante, perché è stato già detto tutto e il contrario di tutto; si rischia di cadere nelle noia o, quel che è peggio, nelle inesattezze. Allora io preferisco descrivere quello che accade a me quando leggo le sue opere, la suggestione e la magia dello scritto.
Pensare che un ragioniere genovese consegnasse alla storia e a noi dei lavori così raffinati e complessi potrebbe sembrare impossibile. Eppure alcune liriche sono davvero sorprendenti.
La semplicità tagliente di “Meriggiare pallido e assorto”, una delle primissime poesie dalla raccolta Ossi di Seppia, dove il quadro naturistico è quasi fotografico e completamente simbolico. Si sente il calore dei muri di un orto nel pomeriggio estivo, si vedono in lontananza il luccichii del mare.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
Poi l’improvvisa folgorazione, che mi lascia la schiena ghiacciata dopo il potente bagno di luce e di calore:
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Non c’è uscita dal nostro destino, per tutta questa infinita e brulicante umanità non esiste via di fuga oltre questo muro.
C’è tanta emozione anche in “In limine” dove il simbolismo è scuro e dacadente, dove si possono leggere atmosfere cupe e disperate, memorie di morte. C’è una figura femminile che non è più l’angelo salvatore che ci avevano fatto conoscere i poeti precedenti, ma è l’unica opportunità di salvarsi: salvando lei, c’è possibilità di sollievo anche per chi rimane e una flebile luce di sollievo universale.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato,- ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
Concludo con la poesia che mi commuove più di tutte ogni volta che ho la possibilità di leggerla (o di ripeterla, per quanto è impressa nella memoria). “Ho sceso dandoti il braccio” è per me il riassunto dell’amore definitivo, che non è detto sia per un compagno/a di vita ma può identificarsi in tutti gli affetti della propria esistenza. La capacità di guardare insieme verso la strada da percorrere, non chiudendosi nel rimanere occhi negli occhi. La tristezza di rimanere da solo per ovvie ragioni temporali o per drammatici motivi contingenti: non è importante il motivo della mancanza, ma il fatto che senza il sostegno dell’amore tutte l’impegno per portare avanti ogni giorno diventa inutile e faticoso. La malinconia e la dolcezza del ricordo, un insieme di scale scese senza sforzo, la consapevolezza della necessità e dell’abbandono nell’altro:
Ho sceso milioni di scale
dandoti il braccio
Non già perché con quattr’occhi
forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo
che di noi due
Le sole vere pupille,
sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Montale. Montale. Con quel finale mi hai fatto venire anche la lacrima, Lucia! <3