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La campana di vetro, Sylvia Plath

Fu un’estate strana, soffocante, l’estate in cui i Rosenberg[1] morirono sulla sedia elettrica, e io ero a New York e mi sentivo come un’anima persa. Io le condanne a morte non le reggo. L’idea della sedia elettrica, poi, mi fa star male fisicamente, e i giornali non parlavano d’altro: titoloni che mi guardavano fisso a ogni angolo di strada e all’imboccatura di ogni stazione della metropolitana con quell’odore di noccioline stantie. Non che mi riguardasse, ma non potevo fare a meno di domandarmi che effetto faceva, essere bruciati vivi lungo tutti i nervi.

La recensione di La campana di vetro di Sylvia Plath

Esther è una promettente ragazza che ha vinto uno stage di un mese a New York presso una rivista.
Per lei quello è davvero un salto di qualità e qualcosa di completamente diverso dalla sua vita.
La ragazza deve frequentare l’ultimo anno di college e vive il mese a New York guardando il mondo scorrere a fianco a lei ma restandone in qualche modo distante.
Tornata a casa, Esther non sa cosa fare.
Non dorme, mangia pochissimo, non riesce a scrivere né a leggere.
Tornare al college è impossibile, idem trovare un lavoro visto che a quanto pare tutte le borse di studio che ha vinto e i corsi seguiti non l’hanno preparata al mondo del lavoro.
Disperata, inebetita al punto da non avere più stimoli, incontra uno psichiatra che la sottopone ad elettroshock.
L’effetto di questa terapia sarà devastante sulla sua fragile psiche e porterà a galla ancor di più il dolore e la voglia di smetterla di sentirsi come in una campana di vetro perché come dice lei stessa

L’aria nella campana di vetro mi stava attorno come ovatta e mi impediva di muovermi.

La mia opinione su La campana di vetro di Sylvia Plath

La campana di vetro venne pubblicato nel 1963 da Sylvia Plath con lo pseudonimo di Victoria Lucas.
La poetessa e scrittrice si ucciderà un mese dopo la pubblicazione.
Il romanzo è un’opera semi-autobiografica.
La campana di vetro è un libro molto bello ma anche devastante per il lettore.
La Plath descrive a meraviglia il senso di straniamento della protagonista che non riesce ad essere partecipe di nulla.
Esther è sempre stata una brava ragazza, studiosa, obbediente ma ad un certo punto della sua vita qualcosa si è inceppato.
Il confronto tra lei e le altre ragazze non regge, le leggi della società le sono inaccettabili, l’ipocrisia di chi le sta intorno la soffoca.
Il pensiero che da una donna ci si aspetti che si sposi, faccia figli e viva all’ombra del marito le è insopportabile.
Perché una donna non può decidere di non sposarsi o di non avere figli?
Perché deve arrivare vergine alle nozze?
La verginità per Esther diventa un macigno, quasi una colpa da cui liberarsi per essere uguale a tutti gli altri.

Il libro parte da New York e dallo stage presso una rivista per poi continuare con il racconto del crollo di Esther, del suo tentato suicidio e la conseguente permanenza in una clinica psichiatrica.
Un libro che ha la morte come filo rosso che si snoda in ogni pagina.
Esther si confronta sempre con l’idea della morte: è liberatoria ma anche affascinante.
La morte in un certo senso la libererebbe dall’angoscia, dal possesso degli uomini autoritari, dalla madre che la vorrebbe a sua immagine e da tutti i suoi sogni infranti dalla società.

La campana di vetro è la storia di una malattia e l’esplorazione che Esther compie di se stessa per imparare a capirsi, a fidarsi e a riconoscersi come donna indipendente in una società ancora chiusa in rigidi schemi.
La scrittrice critica la casta dei medici, soprattutto uomini, e la medicina psichiatrica e le sue terapie a base di elettroconvulsioni.

Un romanzo intenso, ricco di spunti riflessivi, un romanzo da riscoprire.
Buona lettura.

La campana di vetro
Sylvia Plath
Mondadori, 2016, p. 244, €. 7,00

Francesca, 44 anni, mi firmo come SIBY su Zebuk. Amo leggere e fin da piccola i libri sono stati miei compagni. Leggo di tutto: classici, manga, thriller, avventura. Unica eccezione Topolino; non me ne vogliate ma non l’ho mai trovato interessante.

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