Cristiana ci ha proposto di parlare della morte e di come affrontare l’argomento con i nostri ragazzi. A lei la parola (e mille grazie!)
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Quando Zebuk mi ha proposto questo post nella rubrica Le cose da grandi spiegate ai bambini, io in realtà ho pensato d’istinto a loro, ai ragazzi, e anche un pò a me, alla me adolescente che sono stata.
La morte è un calcolo delle probabilità, quando ti capita di vivere in un famiglia numerosa, come la mia. I miei genitori erano rispettivamente l’ultima e il penultimo di 6 e 7 fratelli. Quando avevo tredici anni molti dei miei cugini avevano già avuto figli. E la morte e la malattia cominciavano ad allungare le loro ombre sulla mia numerosa famiglia.
Ho cominciato abbastanza presto quindi a intuire che non sarei stata infinita nel tempo. Ma un episodio poi più di altri me lo fece capire con chiarezza.
Un meraviglioso abito di velluto nero, di una morbidezza che mi è rimasta nella memoria tattile delle dita. Mia madre lo confezionò per mia nonna per il giorno del suo funerale. E finì nel nostro armadio, mio e di mio fratello. Ogni tanto di nascosto aprivo l’anta dell’armadio, per toccarne il tessuto, per metterci la guancia vicino e sentirne la delicatezza. La morte non poteva certo essere così, pensavo tra me. Quando mia nonna morì mi rifiutai di vederla. Erano passati dieci anni da quando l’abito era stato confezionato. Mi sembrava ormai che quell’abito fosse riuscito a scongiurare l’ultimo viaggio di mia nonna. E il dolore e il senso di impotenza cominciò a graffiarmi dentro. Era una sensazione molto, molto diversa dall’abito di velluto.
Eppure fu per me un’occasione: la casa si riempì di gente, litanie di rosari sgranati senza interruzione notte e giorno per vegliare il corpo, mentre mia madre e mia zia preparavano pasti per chi c’era, in una continua osmosi tra vita e morte. Fu un modo bello per salutare la nonna.
Ci furono poi altre occasioni che mi aiutarono a prendere le misure con la morte ma anche con la vita che sentivo esplodermi dentro.
Ora molte cose sono cambiate, per ragazzi e adulti. Il modello culturale che ci viene proposto è quello di una vita eternamente giovane, come si dilungasse su una traiettoria senza fine. C’è sempre un modo per ingannare il tempo, le rughe e la frustrazione dei rimpianti. Basta solo qualche ritocco e il trucco, quello vero, è fatto. Come un’antidolorifico iniettato a piccole dosi: all’inizio non senti più il dolore, poi finisci per non sentire più nulla.
Oggi i ragazzi di fronte al sentimento della fine, che cominciano ad avvertire con grande consapevolezza proprio nella fase di passaggio all’età adulta, si trovano come divisi. Sono capaci di vedere scene tragiche in TV quasi come fossero anestetizzati, anche di fronte a fatti reali, cui la moderna gestione dell’informazione ci ha abituato. Ma quando purtroppo sperimentano la morte, la sofferenza come fatto personale si trovano soli. Le famiglie sono diventate isole di un arcipelago disperso. Sembriamo tutti a caccia di un bene prezioso in via di estinzione, il tempo. La rete sociale di famiglia e affini, che prima costituiva quasi una specie di terapia di gruppo, ora è inesistente. Il confronto allora con la verità della morte diventa difficile, in un contesto sociale così disgregato e alienante.
E i grandi spesso sembrano più sperduti dei ragazzi. Forse perché sentono di non poter più raccontare ai propri figli storie di fantasia, dal sapore potentemente catartico, ma non per questo incapaci di dare valore anche a momenti dolorosi e di cambiamento. Spesso lasciano andare piccole occasioni di dialogo, per paura di non saper dire, o per il pudore di non essere abbastanza forti di fronte a eventi tragici.
Sarebbe bello allora ritrovarsi a leggere storie, a consigliarle e condividerle, perché i libri curano e sono ponti fatti di parole, che a volte superano distanze vertiginose.
E perché di storie piene di bellezza e di speranza che raccontano il difficile confronto dei protagonisti con la morte, ce ne sono tante.
Come questa:

Sette minuti dopo la mezzanotte, di
Sioban Dowd e
Patrick Ness, illustrato da
Jim Kay, in Italia pubblicato da Mondadori per un target +12. Il protagonista
Conor, un ragazzino di 12 anni, si ritrova tutte le notti dentro un incubo. Un mostro lo viene a cercare, per raccontargli delle storie, ma soprattutto per indurlo a raccontare la sua e cercare la verità dentro di sé: quel nocciolo di dolore acuto causato dalla malattia della madre e dalla solitudine che Conor sente dilagare dentro lo porta a pensieri terribili da confessare persino a sé stesso. Un libro che non può lasciare indifferenti, ragazzi e adulti, perché affronta con coraggio, passione e autenticità sentimenti profondissimi, a volte in perfetta contraddizione tra loro, ma che abitano sempre l’essere umano nei momenti cruciali della vita a qualsiasi età si appartenga.
Per un target +10 c’è invece questo:
La storia di Mina, di
David Almond, vincitore dell’
Ibby Andersen 2010. Mina è una ragazzina strana, che preferisce vedere il mondo dal ramo di albero, che si fa domande imbarazzanti sul senso della vita e della morte, soprattutto dopo la scomparsa del padre. Domande alle quali spesso gli adulti che incontra anche nel contesto scolastico hanno paura di rispondere. Sarà l’incontro con un ragazzino a farla scendere dal suo albero e riportarla al contatto con la vita. Un libro delicato, vero, scritto in un linguaggio lucido ed estremamente poetico.
E infine per un target +14 c’è

Il segreto di Chanda, di
Allan Stratton, pubblicato da Sinnos. Chanda vive in un paese africano, colpito da povertà e morte, conseguenza spesso di una malattia su cui l’ignoranza e l’indifferenza gettano insulsi pregiudizi, l’AIDS. Sarà proprio la madre di Chanda a scoprirsi malata. Chanda si troverà da sola a gestire i suoi fratelli e la casa, dopo che sua madre, per non indurre all’ostracismo anche il resto della sua famiglia, decide di allontanarsi per andare a morire in solitudine, in una capanna abbandonata della foresta. Ma Chanda non si arrende al pregiudizio e l’amore che nutre per la sua famiglia le permetterà di affrontare un lungo viaggio verso l’ultimo addio a sua madre. Il libro inizia con la morte della sorellina di Chanda e finisce con quello di sua madre, eppure dopo aver versato fiumi di lacrime e girato l’ultima pagina, si ha la percezione interiore che è proprio questa morte che da senso alla vita, e che non è lei ad abbatterci davvero, ma la mancanza di scelte consapevoli, dettati dall’amore e dal rispetto per noi stessi, come parte piccola eppure importante di questa meravigliosa vita.
Potrei citarne ancora molti ma non posso chiudere senza ricordare un libro che ha ormai fatto la storia della letteratura per ragazzi. In fondo anche la saga di Harry Potter è un unico canto di riscatto dal nulla della morte. Ma a questo non servono commmenti.
Buona lettura!