Asino chi legge (per forza) : l’incipit

Torna l’appuntamento con la carissima Anna Lo Piano aka PiattiniCinesi che ci spiega come un buon incipit sia fondamentale per la riuscita di un buon romanzo.

 

Vi è mai capitato, scorrendo le prime righe di un libro, di rimanere agganciati come un pesce all’amo, senza riuscire a staccare gli occhi né la testa, come se foste già lì, nella storia, e voleste volerne sapere di più?

Ecco, quelle prime righe, nel romanzo “moderno” (che poi vorrebbe dire dalla fine del ‘700 ai giorni nostri, perché il concetto di moderno in letteratura è un po’ relativo) si chiamano incipit.

Un buon incipit, come sanno tutti i bravi editori, è fondamentale per un romanzo. Infatti, come i cantastorie del medioevo, dell’antichità, o della tradizione popolare, avevano bisogno di farsi ascoltare in mezzo al rumore di una piazza o alla noia di una corte, oggi i romanzieri devono attirare l’attenzione dei lettori in mezzo a migliaia di titoli in commercio che usano mezzucci come copertine colorate, fascette e pubblicità televisive.

Per questo le prime frasi di  un romanzo a volte sono le più difficili: uno scrittore è capace di passarci giorni, settimane e a volte anche mesi a lavorarci sopra, limando ogni virgola e ogni parola.

Certo, il fatto che debba attirare l’attenzione non basta a fare di un incipit un buon incipit; altrimenti basterebbe fare affermazioni esagerate e scandalistiche come “nel bel mezzo della cena il presidente fece una puzza così tremenda che i vetri del palazzo tremarono tutti”. Certo una frase così ci fa ridere e magari ci fa venire anche voglia di sapere tutto sulle reazioni degli invitati, ma non basta. L’incipit è come il la quando si suona, serve come nota intorno alla quale accordare tutto il resto. Deve farti intuire cosa troverai, darti delle indicazioni senza svelarti tutto, stabilire lo stile, il grado di ironia, farti capire dove ci troviamo o, al contrario, farti capire che per leggere il resto devi accettare di perderti.

fotoImparare ad analizzare un incipit può essere molto utile sia per fare quelle noiosissime recensioni che chiedono a  scuola, sia per scartare con adeguata motivazione il mattone che la prof vi vuole costringere a leggere.

Non è che in questo poco spazio possiamo fare un corso completo di incipit, però possiamo vederne qualcuno, per esempio l’incipit in cui l’autore si presenta:

Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Rizzoli

“Sono nato nell’anno 1632, nella città di York, da una buona famiglia, ma non del paese; mio padre era uno straniero di Brema che si era stabilito in un primo tempo a Hull. Si fece una buona posizione con il commercio, poi, ritiratosi dagli affari, andò a vivere a York, città da cui aveva menato in sposa mia madre, i cui parenti si chiamavano Robinson, ed erano un’ottima famiglia del paese; dal loro nome io fui chiamato Robinson Kreutznaer; ma, per l’abitudine che si ha in Inghilterra di storpiare le parole, siamo ora chiamati, anzi ci chiamiamo e scriviamo il nostro nome, Crusoe, e così mi chiamavano sempre i miei compagni.”

Per dei lettori abituati alla velocità queste notizie sembrano un po’ troppe. Ma quando arriva al punto questo? Verrebbe da dire. Il fatto è che l’autore sta per raccontare un’avventura così incredibile che ha bisogno di trovare qualche punto di appoggio reale, e allora inventa un finto autore con un nome, un cognome, una famiglia, una città e parecchie date.  A questo punto siamo quasi pronti a credere che davvero sia esistito, ma siamo pronti anche ad affezionarci a lui e ad ascoltare ciò che ha da dire?

Una scrittrice davvero brava a creare personaggi a cui affezionarsi era Louise May Alcott, che nel 1868 scrisse un romanzo, Piccole donne, che è rimasto nell’immaginario delle ragazze per più di un secolo. Ecco come presenta le protagoniste del libro, nel suo incipit.

“Natale non sarà Natale senza regali”, borbottò Jo, stesa sul tappeto.
“Che cosa tremenda esser poveri!”, sospirò Meg, lanciando un’occhiata al suo vecchio vestito.
“Non è giusto, secondo me, che certe ragazze abbiano un sacco di belle cose e altre nulla”, aggiunse la piccola Amy, tirando su col naso con aria offesa.
“Abbiamo papà e mamma, e abbiamo noi stesse”, disse Beth, col tono di chi s’accontenta, dal suo cantuccio.
I quattro giovani visi, illuminati dalla vampa del caminetto, s’accesero alle consolanti parole, ma tornarono a oscurarsi quando Jo aggiunse tristemente: “Papà non l’abbiamo e non l’avremo per un bel pezzo”. Non disse “forse mai più”, ma ognuna, in cuor suo, lo pensò, andando con la mente al padre lontano sui campi di battaglia.”

Questo tipo di  incipit si chiama in medias res: ovvero l’autore ci porta direttamente sulla scena, come se fossimo seduti anche noi nel salotto delle sorelle March, mentre le ragazze parlano tra di loro, svelando ognuna il proprio carattere in una battuta. Dopo poche righe sappiamo già chi ci piace, chi ci fa ridere, chi ci fa tenerezza, e soprattutto, con chi ci identificheremo tutta la vita (se siete giovani non fate sforzi di immaginazione, la risposta è Jo).

In questo caso il contesto, ovvero il papà in guerra, è un’informazione data direttamente da una delle protagoniste, ma a volte la storia può cominciare con un’azione interrotta da una spiegazione, come nei Dannati di Malva di Licia Troisi, un’autrice fantasy molto amata dai ragazzi.

“Mal si aggiustò la spada sulla schiena. Spadone a due mani, un’elsa lunga quattro palmi e sette libbre di peso. L’arma più adatta ad un guardiano di Malva, diceva suo padre. Un affare di acciaio terribilmente pesante da trascinarsi dietro, pensava Mal. Aveva iniziato il corso di spada da un anno, e ancora non aveva trovato il modo giusto per trascinarsi dietro quell’arma smisurata. Finiva sempre che la punta strusciava per terra, mentre l’elsa gli spuntava su dalle scapole per buoni cinque palmi. Una cosa che gli dava il ridicolo aspetto di uno spaventapasseri. C’era comunque poco da fare; suo padre, un vecchio militare, s’era messo in testa di fargli fare la Guardia Cittadina. Un lavoro sicuro e ben pagato, persino prestigioso, diceva. A Mal non restava altro che piegarsi alla volontà paterna, e seguire tutte le sere il corso di spada, assieme ad un’altra decina di marmocchi come lui, tutti rampolli di famiglie benestanti. Del resto, c’era qualcosa di rassicurante nell’avere il destino già segnato, persino a dieci anni. Nessuna scelta da fare, nessuna preoccupazione per il futuro. Tutto sommato, era come essere avvolti in una coperta, vecchia sì, ma tranquillizzante.”

In poche righe, mentre Mal si aggiusta la spada sulla schiena, abbiamo imparato molte cose del suo rapporto con il padre, ed istintivamente tifiamo per lui. Ma se nessuno ci avesse detto niente, avremmo lo stesso preso le sue parti? Come si fa a rendere un personaggio simpatico senza dire quasi niente di lui? Andiamo a vedere come ci riesce quel geniaccio di Mark Twain.

«Tom!»
Nessuna risposta.
«Tom!»
Ancora silenzio.
«Vorrei proprio sapere che cosa sta combinando quel ragazzo. Ehi Tom!»
La vecchia signora abbassò gli occhiali e lanciò un occhiata alla stanza al di sopra delle lenti, poi li sistemò di nuovo sul naso e guardò dal di sotto. Accadeva assai di rado che ci guardasse attraverso quando l’oggetto della sua attenzione era una cosa da poco come un ragazzino, perché quegli occhiali erano i suoi migliori, roba di cui sentirsi orgogliosi, ed erano stati fatti per bellezza, non per utilità; tanto che un paio di coperchi da stufa avrebbero prodotto lo stesso effetto. Per un momento assunse un’aria perplessa, poi disse, non minacciosamente, ma con un tono abbastanza alto da farsi sentire anche dai mobili:
«Beh, se riesco a metterti le mani addosso…»

Tom Sawyer non appare neanche nella scena, anzi il fulcro di tutto è proprio la sua assenza, eppure noi siamo contenti che sia così, e ci auguriamo che nessuno riesca a mettergli le mani addosso.

 

Vi appassiona il discorso sull’incipit? E allora seguiteci al prossimo appuntamento con Asino chi non legge. 

 

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