Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.
Mary Catherine Blackwood vive nella casa di famiglia insieme alla sorella Constance e allo zio Julian.
La loro vita scorre sempre uguale: due volte a settimana la ragazza va in paese a fare la spesa e a prendere in prestito i libri della biblioteca mentre per il resto del tempo la piccola famiglia se ne sta nella bella casa in mezzo al bosco. Pochissimi i contatti con gli abitanti del paese che sembrano temere e allo stesso tempo disprezzare i Blackwood.
Il motivo di tali sentimenti è presto detto: sei anni prima i genitori delle ragazze, il loro fratellino e la moglie dello zio Julian furono avvelenati con l’arsenico messo nello zucchero. Nessun colpevole fa mai trovato ma da allora la gente ha sempre guardato con sospetto le due ragazze Blackwood.
Improvissamente, un giorno, arriva a trovarle il cugino Charles che si instaura nella grande casa e scuote il fragile equilibrio di quelle vite. Lo scompiglio porterà rivelazioni e cambiamenti che si ripercuoteranno sulle ragazze e sulla piccola città.
Stephen King nella dedica del sul libro L’incendiaria scrive: “A Shirley Jackson che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce” e questa frase calza a pennello allo stile dell’autrice.
La Jackson racconta senza indulgere mai in facili cattiverie una vicenda nerissima.
Il lettore ascolta la storia dalla voce di Mary Catherine, voce che odia i concittadini, li detesta e li teme. Perchè la città è cattiva con loro, perchè i bambini sono soliti comporre orrende filastrocche sulla storia della famiglia Blackwood e sulla sua fine
Merricat”, disse Connie, “tè e biscotti: presto, vieni”
“Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni”
“Merricat”, disse Connie, “non è ora di dormire?”
“In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire
Una storia dalle atmosfere noir con ambientazioni e personaggi che ricordano una famosa famiglia: la grande casa fuori città circondata dal parco, legami familiari diversi dalla norma ma comportamenti educati ed ineccepibili, poche persone ammesse nella magione per il the pomeridiano e lo zio strambo… Non vi viene subito in mente la famiglia Addams?
Devo dire che non conoscevo questa scrittrice e ne sono stata conquistata perché la malvagità in questo romanzo è tutta detta sottovoce.
Un libro dove non succede quasi nulla all’apparenza ma che sotto la superficie calma cela la follia.
Le sorelle Blackwood esercitano uno strano fascino sul lettore: ammaliano e inteneriscono pur respingendo perché sono colpevoli ma allo stesso tempo vittime. Vittime della follia e del troppo amore.
Il sole splende sulla casa dei Blackwood, illumina il prato dove lo zio Julian ama riposare, le ombre si allungano lungo il fiume e nascondono il rifugio segreto di Mary Catherine e del suo gatto, l’aria è ricolma degli odori dei piatti cucinati da Constance ma sotto quello stesso sole, tra quegli alberi ombrosi e l’erba alta del campo si nascondono segreti e colpe.
La colpa di chi ha avvelenato lo zucchero e la colpa di chi sapeva e ha taciuto.
Un piccolo capolavoro di narrazione che terrà il lettore avvinto fino al finale grazie a una scrittura perfetta che tesse una trama avvincente. Buona lettura.
Abbiamo sempre vissuto nel castello
Shirley Jackson
Adelphi, 2009, p. 182, €, 18,00
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