Anche in questo nuovo appuntamento Fosca ci insegna a godere della poesia; donne e versi, impressioni catartiche e sviluppo ironico del testo poetico.
Ogni volta per noi è un piacere, voi che ne pensate?
Buona lettura.
Scrivere poesia per le donne autrici è, spesso, affrontare la verità guardandola in faccia, in modo autentico, genuino e spontaneo; lo si ritrova in modo particolare nella poesia femminile dell’ultimo secolo.
E questa genuinità, che per alcune poetesse fu pericolosa o impossibile da affrontare tanto da indurre al suicidio (dalla Bishop alla Cvetaeva, dalla Plath alla Sexton, dalla Pozzi alla Rosselli tanto per guardare anche in casa nostra), per alcune altre è la base per la lievità e la perfezione attraverso la liberazione dalle sovrastrutture.
Non citerò come esempio di quest’ultima categoria la Wisława Szymborska
perché ormai è onnipresente anche a sproposito, nonostante la sua leggerezza spiritosa e umoristica si adatti profondamente solo a pochi intensissimi argomenti in realtà (secondo me). E qui ci sarebbe da aprire un discorso sull’utilizzo marchettaro di stralci di versi a casaccio, solo perché semplici in apparenza, gettati qui e là nei posti più disparati (e disperati) dai baci perugina al calendario lunare come slogan pubblicitari elitari – ma non lo farò, almeno non questa volta.
Invece vorrei proporre, prima di tutto a me stessa, la lettura di una poesia di Kazimiera Iłłakowicz.
Vale dire: chi?
In italiano, addirittura sull’”onnisciente” google, non se ne vede quasi l’ombra e la poesia che riporto è tradotta sapientemente da Krystyna Jaworska in un’antologia Mondadori che comprai nel lontano 1996.
Kazimiera Iłłakowicz nasce a Vilna nel 1892, studia a Oxford e all’Università di Cracovia, rifugiata in Romania durante la guerra, torna in Polonia nel 1947 stabilendosi a Poznan dove muore nel 1983. Di lei questo so e solo questo riporto, ma sebbene la sua vita non pare esser stata degna di menzione e d’avventura , la sua poesia è profondamente buffa e coltamente umoristica.
E, stante la statistica relativa all’esistenza di poetesse categorizzabili con “vene-sangue-morte” in quantità mille mila volte superiore alle sorelle minori, poetesse lievi e buffe, io tifo per queste ultime.
Gli angeli – II Arazzo
Si può forse giocare con gli uccelli
– come con una palla?
Con la cincia, la cutrettola, la ghiandaia, il ciuffolotto
– come con una farfalla?
Con il fringuello – come con un campanello?
Con la taccola come un giocattolo?
Così fanno gli angeli,
quando vogliono trascorrere un giorno in allegria.
Uno predica al cuculo, lo tiene sulla mano
e questi, confuso, annuisce con lo sguardo ad ogni parola,
un altro ritocca di grigio i passeri avvampati dal cinguettio,
un terzo tiene in mano un lucherino rissoso.
E quando, sebbene separati, litigano ancor di più
arrivano gli angeli più giovani a intonar canti sereni
(Traduzione di Krystyna Jaworska)
Il leone disturba
[…]
Il muezzin bianco… Nel minareto slanciato
vi sono anfratti bui, da cui stormi di rondini
il muezzin bianco invia per il mondo;
là si è smarrita la mia leggera, lieve, felicità,
si è persa come quell’altra, ma più non volerà,
ah, non muoverla, non muoverla, leone, che giaccia in silenzio.
(Traduzione di Krystyna Jaworska)
Quanta luce in queste righe!
Forse tutta la poesia è in qualche modo poesia di gioia anche quella che definiamo triste tout court perché è nella percezione e identificazione con un sentimento altrui che il lettore trae appagamento. Nonostante ciò, credo che la poesia della gioia dovrebbe diventare una sorta di gaia scienza attraverso la quale combattere le sovrastrutture mentali, filosofiche e religiose che nel mondo occidentale hanno impedito il nascere di una naturale educazione alla felicità.
Ci sono persone che scrivono perché nella parola trovano una cura al dolore e ci sono perone che per fortuna scrivono perché sono “in pensiero per la vita / per gli esseri felici” (A. Anedda).
Appuntamento delizioso questo con Fosca che mi introduce felicemente ad una poesia preziosa per grana e luminosità.
Ci sono commenti come questo che dovrebbero diventare un post a sè stante.
Grazie Maria Grazia Insinga!
😀
Grazie a te che m’hai infilzato con la tua luce!
Non conoscevo questa poetessa, né l’eroica traduttrice, e anche per questo ringrazio Fosca per l’ennesima, preziosa presentazione.
Sono felice di ritrovare qui anche Maria Grazia, altra persona e creatrice di versi per la quale ho stima.
Mi sto tenendo alla larga da internet, se non per motivi di studio e ricerca personali, da blog (compreso il mio) e siti vari. Ma quest’imbeccata non potevo perdermela.
Sono sempre vicino a chi è sodale con l’idea di una “poesia profondamente buffa e coltamente umoristica”. Intanto perché considero l’ironia un valore altissimo e un’arte raffinatissima che, sempre più, sta diventando dono di pochi. E poi perché non si può contemplare una poesia slegata dalla vita, e la vita è anche levità, leggerezza, talvolta frivolezza, futilità. E anche di questo si può scrivere, si deve scrivere; anche da questo possono nascere poesie grandiose.
Per indole tendo al passionale, al furor brevis, alla sensazione vertiginosa e quindi mi colpiscono molto, di solito, gli scritti e le poesie dal tono definitivo, reciso, solenne. Ma Chesterton (mica cotiche) nel suo saggio su Chaucer parla di quest’ultimo come di un umorista solennemente grande (non solo, ma anche) e accenna alla sua (di Chesterton) convinzione che possano esistere solenni spiritosaggini – e che queste possano essere addirittura spirituali.
C’è inoltre da dire che il filone arguto, sagace è molto poco praticato; di contro, quello “vene-sangue-morte” – considerato con grossolanità foriero di esiti e sensazioni più istantanei – pare sempre ad un passo dalla saturazione. Con risultati, ahinoi, spesso grotteschi.
Perciò, stanti pure le mie inclinazioni, io non posso che mettermi al fianco della mia amica e parteggiare per la compagine più sguarnita. Un po’, rivisitando con un sorriso Brecht, perché tutti gli altri posti erano occupati; ma soprattutto per amore di queste mosche bianche – categoria della quale, credo, abbiamo tutti e sempre un gran bisogno.
Saluti a Fosca e a ZeBuk!
Grazie davvero per il vostro prezioso interessamento.
La rubrica è stata fortemente voluta per cominciare a leggere con gli occhi e con il cuore, per amare un tipo di letteratura che rimane troppo spesso relegata in una nicchia (e ancora più spesso “utilizzata” a sproposito).
Ancora più bello diventa se proprio voi lettori (i questo caso lettori di pregio) approfondite il messaggio e sviscerate la tecnica.
Grazie ancora e a rileggerci.
“Tutti gli altri posti erano occupati”, ok, mi piace: io mi siedo in fondo, però!
Concordo sul fatto che sangue-vene-morte ha un po’ traccato; purtroppo i risultati grotteschi si raggiungono quando si trattano argomenti dolorosi e profondissimi con la profondità di indagine di una carta velina.
Q. i tuoi commenti sono sempre una delizia.
Ringrazio la cara luminosa Fosca per aver riportato alla luce questa poetessa “lieve” e “profonda” che non conoscevo. Anch’io faccio il tifo per la poesia profondamente lieve, coltamente ironica e anche saggiamente scanzonata, definita a torto “minore”, perché per scrivere questo genere di poesia occorre avere le spalle robuste, la testa lucida e il cuore fermo. Questa poesia è il frutto di un lungo e duro lavoro su e dentro di sé che il poeta opera per poter porgere al lettore realtà anche terribili con la soavità di un sorriso disincantato ma pieno di amore per la vita.
Chi di noi, da bambino tra i banchi delle elementari, non ha pensato che per fare il poeta bisognasse essere depressi, tristi, maledetti, anche un po’ sfigati? Se poi alla fine ti suicidavi, allora eri un poeta al top e il tuo editore gongolava! Siamo stati “educati” a identificare la scrittura poetica con l’esternazione della sofferenza e del male di vivere e questo ha penalizzato non pochi poeti del ‘900 ai quali veniva rifiutata ospitalità nelle riviste letterarie, perché considerati “leggeri”. Dunque ben venga Kazimiera che ha smarrito la sua “leggera, lieve felicità” ma ci dice che si può vivere serenamente anche con meno.
Se il rischio di tanta parte della poesia femminile contemporanea è di scadere in cio’ che Fosca individua caratterizzarsi con la ” profondità di una carta velina” , dall’altra parte la levità scade a volte in un’ironia fuggevole che non supera sè stessa e non spinge ad una seconda lettura o fa rotta verso una leggerezza “gioia-luce-amore” che risulta più pesante della pesantezza (passatemi il pleonasmo).
Per formazione e sensibilità preferisco la parola poetica sangue e carne dove trovo e sento vita, ma invidio profondamente le rare poetesse che portano respiri e luce per me intraducibili. Poi alla fine ovunque si guardi il confine sta sempre tra poesia e non poesia che di sangue o respiri, di notti o di sole si scriva e di certo il canto della Szymborska ha quella profonda levità che ad ascoltarla devi tendere bene l’orecchio e socchiudere piano gli occhi, ma questa è poesia…