Romanzi di (un certo) genere : Italia, Fabio Massimo Franceschelli

È sempre più diffusa, malgrado gli scongiuri di tanti ottimi critici, l’abitudine di raccontare in breve la trama dei romanzi nelle loro recensioni. Italia però non è riassumibile: accade tutto in un centro commerciale, i protagonisti sono una ventina, ne muoiono tanti di loro compreso l’assassino, c’è amore, c’è sesso, c’è religione, c’è sindacato, c’è mafia, c’è politica e c’è aziendalismo – oh, si chiama Italia, che altro volevate? Non conta sapere come va a finire, contano le relazioni, quelle che desideriamo e come le desideriamo – e cosa ne facciamo. E questo non si può capire dalla trama.

«Ridere felici del proprio membro, che sia dritto o moscio, grande o piccolo, una cosa impossibile all’interno della vita di coppia dove di lui non si parla. E poi fottersi le reciproche donne, madri, sorelle, beffandosi di tutti i tabù. Un grande ecumenico pene, spiritualizzato e sempiterno che si scopa tutte le vagine del mondo e a cui tutti gli uomini sono devoti.»

Per raccontare un intero paese servono parecchie lingue, e in queste pagine se ne parlano tantissime. Non si tratta solo di stili e di necessità tecniche del romanzo. Le differenze esistenziali sono differenze soprattutto di linguaggio, e i tanti diversi personaggi devono parlare ciascuno la sua lingua fatta di pensieri, sensazioni, tabù e desideri. Abbiamo dialetti, burocratese, flusso di coscienza, scontri tra lessico dei giovani e dei meno giovani, descrizioni tecniche, fine riflessione psicologica. Non c’è però la proverbiale polifonia romanzesca, ed è giusto così: non c’è nessuna cosa in comune che tiene queste vite insieme, non c’è nessun luogo né nessun tempo. C’è solo, forse, la merce, la sua grande ipocrita casa, e il modo più sbagliato di considerarla.

«Un tributo al senso estetico che sotto sotto, anche sepolto da stratificazioni decennali di brutta televisione, cova ancora nel sangue di tutti gli italiani, nati nel Paese bello, cresciuti, pasciuti e ingozzati di bello, disgustati da un eccesso di bello che svaluta il prodotto e lo mostra inutile, perché l’abbondanza e l’utilità non vanno d’accordo, ancor meno abbondanza e cura.»

Si potrebbe individuare un unico protagonista, in Italia di Franceschelli: il potere. In questa storia che ne racconta uno dei possibili – momentanei – dissolvimenti, lo vediamo esprimersi in pensieri e atteggiamenti sessisti, in soprusi di classe, negli abusi tra colleghi, in misere guerre tra poveri, nei giochi dei bambini. Il potere trasuda dalle parole, dai ricordi, tormenta anche molti personaggi che parlano tra sé, si sfoga sulle cose e sulle persone che, ovviamente, sono suoi mezzi e non suoi fini. Lotte di genere, odio per denaro, scontri culturali raccontati apertamente mentre alludono, e neanche troppo di nascosto, a un collasso generale del potere dell’uno sull’altro. Collasso che non è mai indolore, per nessuno.

«Perché devo pormi questo problema di dichiararmi? Non è orgoglio gay, è confessione! Ma io non ho colpe da confessare. Già me la sento la mia voce sciolta nelle lacrime: Papà, mamma, scusate se vi do questa delusione ma sono gay. Delusione? Io sono felice, io non cambierei mai la mia vita con quella di nessun altro! Perché dobbiamo dirlo? Perché dobbiamo dichiararci? Io non conosco nessun eterosessuale che si è mai posto il problema di dire ai propri genitori che gli piacciono le femmine.»

Italia
Fabio M. Franceschelli
Del Vecchio Editore, 2016, p. 269, €. 14,03

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