È uscito il nuovo libro di Fabienne Agliardi e dopo averlo letto e amato abbiamo deciso di farle qualche domanda sui luoghi del cuore.
Fabienne, benvenuta su Zebuk. È da poco uscito il tuo nuovo romanzo Appetricchio. Presentalo tu ai nostri lettori, ti va?
Appetricchio è il paese delle meraviglie di Alice, è hic et ubique: qui e altrove, tutti i luoghi, nessun luogo. È un viaggio nostalgico in un paese immaginario, ma che esiste, perché è il posto del cuore che abbiamo tutti, che abbiamo amato, che spesso coincide col luogo natìo, quello dove ci siamo divertiti da piccoli, con personaggi unici, che hanno senso solo lì.
Il paese si chiama Petricchio, ma gli abitanti ci appioppano una A davanti con raddoppio di consonante, come si fa spesso al Sud: come dire, Arroma, Ammilano, Avvenezia. Non esistono strade o vie, è tutto un lannànz, larrète, labbàsh, varie forme di moto a luogo, e se lo vedi dall’alto ha la forma di un Uroboro, il simbolo dell’eterno ritorno.
Ci sono solo 25 abitanti che si chiamano quasi tutti Rocco, e ci entrano solo 4 turisti, i Bresciani di Brescia, di cognome e di fatto: madre, padre e due figli gemelli, che pur vedendo il mare sullo sfondo, non riescono mai ad andarci a causa dei 123 tornanti che gli fanno rimettere le budella dalla nausea. Finché, dopo averci passato estati e inverni per vent’anni, i Bresciani se ne allontanano e non ci tornano più – e il motivo si scopre verso la fine.
Accanto a loro si muove la misteriosa figura di Adelina, che un preciso giorno del 1980 ritorna dall’Argentina riaprendo la porta di casa con le chiavi che s’era portato oltremare anni addietro suo padre, Rocco Poeta.
La prima cosa che si nota del libro è la bellissima copertina. Quando pensavi alla pubblicazione, te lo immaginavi così?
Il protagonista è il paese, e quindi sì, mi immaginavo elementi che riportassero al paese. Mi frullava in testa un’immagine di questa fontana – che di Petricchio è simbolo e posto di ritrovo – con sopra i gemelli di spalle che guardano “lanfùnn”, il mare – che peraltro è una descrizione che ricorre tra le pagine. Petricchio è un paese immaginifico, con un qualcosa di magico, ma è al contempo profondamente credibile e reale. Questa copertina, che fa vedere anche il ponte con sopra i due gemelli, centra molto il cuore del romanzo.
Da dove e quando nasce l’idea per Appetricchio?
Era un’idea che mi perseguitava da un po’. Il primo semino s’innesta quando leggo Lontano da Crum, divertentissimo ma un po’ feroce romanzo autobiografico di Lee Maynard in cui Crum, il suo paesello d’origine, era definito un “errore”. Talmente feroce che gli abitanti, offesi, l’autore al paese non l’hanno mai più voluto.
Poi nei giorni antecedenti al primo lockdown, nel marzo 2020, vedo in tv auto che rotolano verso Sud, treni presi d’assalto, seconde case che si aprono in tutta Italia. Lì vedo un altro elemento che poi prenderà corpo in Appetricchio: nell’incertezza e concitazione di quei giorni, tutte quelle persone cercavano un luogo protetto dove andare, forse immaginando che allontanandosi dall’epicentro della pandemia sarebbero stati al sicuro.
Mi è tornato in mente il mio posto d’infanzia, all’aria aperta vista mare, dove anch’io avrei voluto trovarmi, e invece ero a letto con una polmonite da Covid e una bambina di un anno e mezzo da gestire. Mi torna dunque in mente Crum e penso a quanto sono importanti i luoghi d’origine, anche se a volte li bistrattiamo.
In quegli stessi giorni per me di stanchezza, paura ma anche di intimità domestica, mi accorgo che mi rivolgevo a mia figlia con qualche parola in dialetto lucano, le stesse che mia madre usava – e usa – con me. Mi ero lasciata andare a una lingua familiare. Ed ecco Appetricchio fare capolino. Appetricchio è Heimat, una parola tedesca intraducibile in italiano, ma che significa “casa, piccola patria”, un insieme di sensazioni legate ai posti felici di cui abbiamo perduto l’appartenenza territoriale.
Tu sei nata a Crema, e vivi a Milano. Come mai hai deciso di ambientare il tuo libro proprio in Basilicata? Hai un legame speciale con questa regione?
Ho un percorso girovago, sono un po’ figlia di tanti posti dove bene o male mi sono sempre sentita a casa. La Basilicata è dove è nata mia madre, e dove – guarda caso – è nata anche la nonna paterna. È una regione poco raccontata, di una bellezza arcaica, e forse non è casuale che abbia la terza città più antica del mondo. Ha colori, paesaggi e odori unici. La sua natura comanda e soverchia, e tu che sei turista la vedi come se fosse personificata, che ti scruta dal suo scranno. Quel verde che pare piegarsi su di te, quasi a inglobarti, quasi a dirti: “Ok, entraci, ma qui comando io” – un po’ come fa Petricchio con i suoi quattro turisti.
Appetricchio racconta un microcosmo solido come le sue case costruite in pietra e capace di stupire per la tenacia degli abitanti che resistono a partenze, abbandoni e ritorni senza essere scalfiti. I paesani amano visceralmente Appetricchio e così anche la famiglia Bresciani, che non potrebbe immaginare di andare in vacanza da nessuna altra parte. Quindi qual è il segreto del paesino?
Il segreto è l’unicità e il coraggio che il paesino dimostra. Poi in realtà la famiglia Bresciani, eccetto Rosa che è autoctona, si immagina eccome di poter andare altrove, soprattutto Guidodario il farmacista bresciano doc che sogna le sciate a Campiglio in inverno e il lettino comodo al Grand Hotel di Riccione d’estate. Ma ogni anno Petricchio li ritira dentro, come un elastico. Per i gemelli Bresciani è naturale fare le vacanze dai nonni, come moltissimi di noi hanno fatto – e fanno ancora oggi: non sanno cosa c’è fuori, e quando cominciano a capire, crescendo, che ci sono altre possibilità, iniziano a distaccarsene.
I paesani invece si sono auto-embargati da trent’anni a causa del ponte pericoloso: una scusa per non avventurarsi laffòra, come dicono loro. Io non li giudico, perché Appetricchio è anche una storia di coraggio: ci vuole coraggio ad andarsene, ma anche a restare. E ci vuole coraggio anche a tornare, soprattutto in un posto da cui avevi preso le distanze.
Devo farti i complimenti per le prime pagine del libro che danno l’impressione di entrare in una macchina per il teletrasporto. Ho avuto già occasione di dirti che una parte della mia famiglia viene da un paesino molto simile a Petricchio e quando ho iniziato a leggere la bellissima descrizione iniziale mi sono sentita come se fossi là d’estate tra le rocce, le cicale, il vento. Hai veramente creato un portale per i luoghi del cuore! Era questo l’intento quando pensavi a questa storia?
Quell’incipit è uscito di getto: è stato sempre un punto fermo, tanto che non l’ho mai quasi più toccato. Dal principio avevo chiara una cosa: volevo che il luogo potesse parlare e fare viaggiare con la fantasia il lettore, anche il più irriducibile fan della metropoli. Che potesse raffigurarsi in questo altrove con immagini, suoni, odori. Quindi volevo che il posto si facesse vedere e sentire subito, sin dalle prime pagine. Ma Petricchio senza i suoi abitanti sarebbe solo un ammasso di pietre: sono loro che gli danno un’anima. Poi ogni storia si muove dentro una geografia, anche emotiva.
Il luogo non è solo un punto su una cartina (dove peraltro Appetricchio nemmeno c’è), il luogo è anche lo spazio vissuto dal punto di vista emotivo. Io per esempio dei romanzi non ricordo la trama, ma sono affascinata dalle ambientazioni. Mi è venuto quindi naturale provare a replicare un elemento che mi attrae.
Ora parliamo della lingua usata per raccontare: il dialetto. Credo che sia stata la scelta migliore per rappresentare la vera essenza del paese. È stato difficile inserirlo?
Molto più facile del previsto, in realtà. E questo perché l’idioma di partenza è quello materno, che ho sempre usato qua e là anche da adulta, in contesti ben precisi: un lessico famigliare che ognuno di noi porta con sé. Tra la prima stesura e l’ultima ho ammorbidito molto e ho inventato alcuni termini e suoni per renderlo più musicale. È la storia stessa che mi insegnava a scriverla cammin facendo, aggiustando il tiro. Pirandello diceva che la lingua esprime il concetto di una cosa, mentre il dialetto ne esprime il sentimento. In Appetricchio le parole in dialetto sono collocate in modo strategico e fanno leva sul contesto, cosicché il lettore possa coglierne il significato senza estraniarsi, ma anzi, appetricchiandosi alla parlata. Sono un po’ i localismi delle nonne di Cent’anni di solitudine o i tanticchia e i farsi pirsuaso che usa Camilleri con Montalbano.
Parlaci del progetto dei video girati per la promozione del libro, vuoi?
Dovevo registrare i video che Fazi usa sui canali social, e da perfezionista mi sarebbe piaciuto farlo in Basilicata proprio per renderli più realistici. A giugno Fabio Longagnani, un giovane ma già stimatissimo regista con cui lavoro stabilmente da qualche anno, mi dice: “Ma andiamoci, prendiamo qualche giorno e facciamo come i Bresciani in Appetricchio, tutta in auto!”. E quindi abbiamo registrato un docufilm di 18 minuti, per raccontare, con le persone locali e i posti reali, la storia universale di Appetricchio.
Io in Basilicata non tornavo da quasi trent’anni: è stato un vero salto nel tempo. Mi sono riappetricchiata in pochi minuti. Ho cenato con un’amica d’infanzia, visitato paesi bellissimi che, insieme all’APT Basilicata, ci hanno dato anche il patrocinio gratuito: Sasso di Castalda, Castelmezzano, Rivello, Gallicchio, Potenza. Ho rispolverato il modo lucano di accogliere il forestiero: “Ti vuò piglia’ na cosa?”, e via, ti offrono caffè, vino, birra, pane e sausicchio. Mi sono sentita di nuovo a casa. Dulcis in fundo, il compositore Fabio Codega ha letto il libro e siccome si stava appetricchiando pure lui tornando al suo paese d’infanzia, gli è venuta l’ispirazione e ci ha scritto una canzone: “Vivere così”, che poi è andata a musicare il docufilm.
Nel primo romanzo hai raccontato le prime volte, con Appetricchio i luoghi del cuore. Hai già in mente dove ci porterai con il prossimo libro?
In un altro posto. Un posto di lavoro – anche qui inteso come storia universale. Dinamiche, personaggi e personaggetti in cui tutti ci siamo imbattuti.
E ora l’ultima domanda: che cosa legge Fabienne in questo periodo?
Periodo vorace, perché non dovendo scrivere posso dedicarmi finalmente con più tranquillità agli scritti altrui. Ho appena finito un libricino delizioso: Gentiluomo in mare di Herbert Clyde Lewis. Sto leggendo Gilead di Marylinn Robinson (anche Gilead è un posto, tra l’altro) e, a ruota, una rilettura, ma nella nuova edizione: La Mennulara di Simonetta Agnello Hornby.
Grazie mille a Fabienne per la bellissima intervista e la disponibilità e buon appetricchiamento a tutti!
Ps Fabienne, Gilead lo sto leggendo pure io!